I due più clamorosi “Depistaggi di Stato”, per la strage di via D’Amelio e per l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, dopo tanti anni ancora avvolti nel mistero, esecutori e soprattutto mandanti sempre ‘a volto coperto’.
Due ‘suicidi’ che hanno la rituale impronta dell’omicidio perfetto (o quasi), ossia quelli del capo-comunicazioni al Monte dei Paschi di Siena, David Rossi, e del campione di ciclismo Marco Pantani, sepolti sotto una lapide che si chiama ‘archiviazione’.
Due stragi, sempre di Stato, quelle di Ustica e del Moby Prince, ugualmente senza risposta, gli autori liberi come fringuelli, le vittime uccise due volte, i familiari privati anche di uno straccio di verità giudiziaria.
E’ questa la giustizia di casa nostra. Capace di calpestare la memoria, di massacrare l’elementare diritto a conoscere i nomi dei colpevoli, di veder passare il tempo senza che una foglia si muova.
E la politica? Tace, in modo sempre più complice e omertoso. In grado solo di prodursi in vomitevoli commemorazioni che hanno sempre più il sapore di una beffa. E al massimo (come nel caso Moby Prince) nella creazione delle consuete, inutili commissioni parlamentari d’inchiesta.
Poco più d’un anno fa, a maggio 2020, abbiamo effettuato una ricognizione su quei gialli, su quei buchi neri nella storia del nostro martoriato Paese. Solo la punta dell’iceberg, casi emblematici di fronte ad una montagna di gialli irrisolti, di morti senza giustizia, famiglie destinate a soffrire per il resto delle loro esistenze.
Aggiorniamo qui di seguito quella ricognizione. Che si fa sempre più desolante e umiliante, perché è trascorso – inutilmente – un altro anno.
Pesante come un macigno.
IL PIU’ GRANDE DEPISTAGGIO DI STATO
Eccoci al più grande ‘Depistaggio di Stato’ nella nostra storia: la strage di via D’Amelio, in cui persero la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Quattro processi farsa sull’eccidio e un processo per depistaggio che vede alla sbarra tre poliziotti, i quali all’epoca lavoravano con l’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera, il quale è morto da 15 anni e non più replicare alle accuse.
Abortito, invece, il possibile processo a carico dei magistrati che guidarono le prime inchieste, vale a dire Anna Maria Palma e Carmelo Petralia; nessuna ombra giudiziaria ha mai sfiorato l’icona antimafia Nino De Matteo, subentrato nelle indagini strada facendo ma da sempre nel mirino dei j’accuse di Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice trucidato.
E abortito anche il possibile processo a carico del maggiore dei carabinieri Giovanni Arcangioli, il primo ad aver tenuto tra le sue mani l’Agenda rossa che apparteneva a Paolo, la chiave di tutti i misteri.
Eccoci ai veri nodi: l’Agenda rossa e il taroccamento del pentito-chiave di tutta la story, Vincenzo Scarantino, la cui falsa testimonianza, costruita dagli inquirenti (quali?) a tavolino è servita a far condannare (hanno scontato 16 anni) degli innocenti e, soprattutto, a depistare, facendo perdere anni e anni preziosi.
Sentiamo le ultime parole pronunciate da Salvatore Borsellino, il fratello del giudice, pronunciate il 19 luglio scorso, in occasione dell’ennesimo anniversario di quella strage senza colpevoli e raccolte dall’Adn Kronos.
“La verità su via D’Amelio si saprà, purtroppo, solo quando tutti gli attori di questa scellerata storia saranno morti”.
“Tante volte si dice che lo Stato non può processare se stesso. E sono stati proprio pezzi deviati dello Stato che hanno intavolato la trattativa”.
“Il depistaggio comincia nel momento in cui un capitano dei carabinieri si allontana dalla macchina di Paolo con la sua borsa che poi viene rimessa sul sedile, sperando in un ritorno di fiamma dell’inferno che c’era in via D’Amelio. E sperando che andasse tutto perduto, compresa la borsa. Ma su questo non si è mai veramente indagato, perché se è vero che il capitano Arcangioli è stato assolto dal reato di aver sottratto l’agenda, a mio avviso si sarebbe dovuto indagare su che fine abbia fatto l’agenda di mio fratello e che fine ha fatto prima che la borsa venisse restituita alla moglie e alla figlia”.
“Probabilmente anche il Castel Utveggio ha avuto un ruolo. Se non è stato azionato il telecomando da lì, sono state coordinate le operazioni, come dimostrano le telefonate intercorse tra il Castello e via D’Amelio”. Perché – si chiede Salvatore – le indagini di Gioacchino Genchi furono fermate?
Guarda cosa, in entrambe le vicende (Agenda rossa e Castel Utveggio), fa capolino una presenza: quella di Anna Maria Palma.
Secondo la testimonianza di una ottima giornalista d’inchiesta, Roberta Ruscica, autrice de “I Boss di Stato” (Sperling & Kupfer, 2015), l’agenda è passata (anche) per le mani di Palma.
Come mai della vicenda non è trapelato mai nulla?
Come mai nessun inquirente ha chiesto a Palma conto di tutto ciò? Misteri.
Più volte, nelle cronache su via D’Amelio, s’è intravista la sagoma di Castel Utveggio, ritenuto un avamposto dei servizi segreti. Da lì, secondo alcune ricostruzioni, sarebbe stato azionato il telecomando. Secondo altri (come rammenta Paolo Borsellino) avrebbe quantomeno svolto un ruolo di ‘coordinamento operativo’. Sta di fatto che a Castel Utveggio, per alcuni anni, ha trovato sede il ‘CERISDI’, un misterioso centro studi. E chi ha presieduto, in quegli anni, il CERISDI? Adelfio Elio Cardinale, un pezzo da novanta della politica siciliana, sottosegretario alla Salute nel governo Monti, big della radiologia sicula e – udite udite – marito di Anna Maria Palma.
Quella stessa Palma che anni fa ha querelato la Voce proprio per le sue ricostruzioni sulla strage di via D’Amelio (già allora delineavamo il netto profilo di un Depistaggio di Stato) e, nelle pagine della sua querela, arrivava a sostenere che la pista di Castel Utveggio non ha mai trovato alcun riscontro e per questo è stata subito abbandonata dagli inquirenti.
Come mai, oggi, non un signor nessuno, ma addirittura Salvatore Borsellino, ‘riesuma’ quella pericolosa pista?
E’ in grado, qualche toga, di chiarire l’ennesimo arcano?
COME TI TAROCCO UN ALTRO TESTE CHIAVE
Passiamo all’altro colossale Depistaggio di Stato, viste le tantissime indagini e inchieste taroccate in occasione dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Non s’è più riuscito a tenere il conto, col passar degli anni, circa il numero dei magistrati che hanno avuto tra le mani il bollente fascicolo.
Solo uno ci aveva subito visto giusto: e proprio per questo motivo è stato presto sostituito, fatto fuori – udite udite – per ‘incompatibilità ambientale’: si trattava di Giuseppe Pititto(dopo alcuni anni ha lasciato la magistratura e scritto un libro dove si parla senza mezzi termini di pressioni istituzionali), il quale aveva immediatamente intuito, e cominciato a suffragare con prove e riscontri, che l’affare era grosso, toccava il maxi business dei fondi per la cooperazione internazionale e soprattutto innominabili traffici di armi e rifiuti super tossici. Insomma, un mix davvero esplosivo: in grado prima di eliminare due presenze diventate troppo ingombranti e scomode, Ilaria e Miran. Poi tale da consigliare l’uscita precoce di scena dell’inquirente altrettanto scomodo: il quale rischiava sul serio di alzare il velo sui pupari di quei traffici e di quegli affari.
Per questo si rendeva necessario, poi, indagare per finta, come hanno fatto le toghe che si sono susseguite nel tempo; quindi ‘Depistare’ a tutto spiano.
E’ così che spunta, anche stavolta, un provvidenziale teste, da truccare e taroccare al punto giusto. Si chiama Ahmed Ali Rage, alias Gelle, un somalo che racconta alla polizia una storia tutta da bere, e capace di sbattere il mostro in prima pagina: un altro somalo, Hashi Omar Hassan, che proprio sulla scorta di quella sola testimonianza, senza alcun altro riscontro e mai confermata in dibattimento (circostanza che ha dell’incredibile) viene condannato in tutti i tre gradi di giudizio, e si fa 16 anni – anche lui – di galera da perfetto innocente!
Ci vorrà solo un miracoloso reportage dell’inviata di ‘Chi l’ha visto’, Chiara Cazzaniga, a far emergere la totale innocenza di Hashi. Cazzaniga, infatti, riesce a rintracciare Gelle a Londra, lo intervista e ne ottiene una candida confessione: “Hashi non c’entra niente, mi sono inventato tutto. L’ho fatto perché sono stato obbligato dalla polizia”.
E fa nomi, cognomi e indirizzi di tutti coloro i quali hanno partecipato alla combine.
Il copione del maxi depistaggio è descritto punto per punto, dettaglio per dettaglio, nella sentenza pronunciata quattro anni fa dal tribunale di Perugia. Che non solo scagiona totalmente Mohamed, ma indica con chiarezza la pista, tutta ‘istituzionale’, da seguire per individuare i veri responsabili del duplice omicidio.
Ma cosa succede a questo punto?
L’inchiesta su quel tragico, duplice omicidio passa per competenza alla procura di Roma. La quale ha la strada spianata: basta seguire le tracce perugine, le piste indicate in quella sentenza, lavorarci sopra, effettuare ulteriori riscontri, sentire tutti i testimoni che occorre sentire e ci sono ottime chance per scoperchiare il pentolone dei misteri.
E invece no.
Il pm incaricato delle indagini, Elisabetta Cennicola, chiede ben presto l’archiviazione del caso. A questo punto la decisione spetta al gip: che chiede ulteriori indagini. Ma Ceniccola, anche questa volta, risponde picche e vuole a tutti i costi l’archiviazione: la sua richiesta viene controfirmata da procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Il quale dopo poche settimane va in pensione: che non comincia neanche, perché il 3 ottobre 2019 viene subito catapultato su un’altra poltrona eccellente, quella di Presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano. Cin cin.
Ma torniamo al gip, Andrea Fanelli, il quale per la seconda volta si rifiuta di firmare per quella archiviazione. E ordina ulteriori indagini: elencando, per filo e per segno, tutti i punti da chiarire.
Il termine è scaduto oltre un anno fa, il 4 maggio 2020.
Da allora il silenzio è calato su tutta la vicenda. I legali della famiglia Alpi (Carlo Palermo e Giovanni D’Amati, figlio dello storico avvocato degli Alpi, Giuseppe D’Amati) hanno più volte sollecitato il gip ma non è arrivata alcuna risposta.
Siamo in un clima perfettamente kafkiano. Con un’inchiesta che s’è letteralmente avvitata su se stessa e persa nelle consuete nebbie del porto giudiziario capitolino.
Possibile che la memoria di Ilaria e Miran non venga degnata neanche dello straccio di una risposta?
Possibile continuare a vivere solo di sterili commemorazioni, mentre esecutori e mandanti se la godono da decenni in beata pace?
Possibile che nessun depistatore istituzionale venga nemmeno sfiorato da un’inchiesta – per una buona volta seria – e venga sbattuto davanti ad una corte?
ANCHE PIER PAOLO PASOLINI “DOVEVA MORIRE”
Dicevamo del famigerato porto delle nebbie, quella procura romana in cui, nel corso dei decenni, sono state insabbiate inchieste e processi a bizzeffe.
Come in un altro caso, non meno clamoroso. Quello sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, riaperto cinque anni fa dopo le rivelazioni di Pino Pelosi, il presunto killer, prima di morire, e la richiesta del test sul DNA avanzata dai legali della famiglia Pasolini.
Un test che ha rivelato fatti e circostanze che più inquietanti non si può: ossia che sulla scena del delitto non c’erano solo Pasolini e Pelosi, come sempre ritenuto, ma almeno altri due soggetti. Con un contesto che cambia radicalmente: non omicidio a sfondo sessuale, ma assassinio in piena regola. Per la serie: Pasolini “Doveva morire”, così come è successo per Aldo Moro (da qui il titolo del libro firmato da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato).
Pasolini – la Voce lo ha scritto più volte – venne ammazzato per motivi ‘politici’. Aveva infatti scoperto troppo – da autentico giornalista d’inchiesta – sull’omicidio del giornalista palermitano Mauro De Mauro, sull’affaire ENI, su un altro omicidio eccellente (quello dell’allora presidente del Cane a sei zampe, Enrico Mattei), e sulle acrobatiche imprese del suo successore, Eugenio Cefis, il protagonista di quella ‘Razza Padrona’ che dominerà la scena economico-finanziaria degli anni seguenti.
Anche stavolta il copione è lo stesso. Hai individuato la pista giusta, quella fornita dal DNA, devi solo percorrerla, continuare nelle indagini.
E invece cosa succede? Niente. Il pm incaricato delle indagini, Francesco Minisci, non muove un dito. Non si ha notizia di alcun concreto atto istruttorio mai effettuato nei mesi di presunte indagini. E quindi il caso passa sotto la rituale naftalina.
Ancora in campo, battagliera come sempre, un’amica storica di Pasolini, Dacia Maraini. La quale un paio di mesi fa, nel corso di un’intervista rilasciata sempre all’Adn Kronos in occasione di una festa del libro a Palermo, dichiara: “L’inchiesta sulla morte di Paolini va riaperta. Adesso ci sono gli strumenti tecnologici avanzati, rispetto a 50 anni fa. Si potrebbero ingrandire segni anche molto piccoli, o macchie di sangue non viste. Perché certamente non è stato Pelosi a uccidere Pier Paolo ma un gruppo di persone, questo sembra certo. Ma chi erano non lo sappiamo. Evidentemente fa comodo che la morte di Pasolini rimanga un enigma, un enigma storico…”.
P.S. Per gli altri misteri, da David Rossi a Marco Pantani, fino ad Ustica e Moby Prince, vi rimandiamo ad una seconda puntata che pubblicheremo nei prossimi giorni.
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