mercoledì 27 marzo 2019

La vedova di Chichiarelli: “Mio marito è stato ucciso perché sapeva”


di Raffaella Fanelli
“Ho visto mazzette e mazzette di soldi sparpagliate sul tavolo della sala… c’era una quantità enorme di banconote. E ho capito che Tony si era messo nei guai”. Chiara Zossolo è la vedova di Antonio Chichiarelli, il falsario coinvolto nelle vicende più oscure della nostra Repubblica. “Per lui era solo lavoro. Per gli altri, quelli che si sono serviti del suo talento, erano depistaggi. Mio marito è entrato in una storia sporca che non è riuscito a gestire”. La storia sporca del sequestro Moro. Del falso comunicato numero 7 attribuito alle Br ma in realtà confezionato da chi avrebbe dovuto salvare la vita dello statista. “Quando riportarono in televisione la notizia del lago della Duchessa, Tony sorrideva. Era riuscito a prendere in giro tutti. Il suo comunicato era perfetto, come i suoi quadri”. Per ben quarantotto ore polizia, carabinieri, esercito e vigili del fuoco setacciarono la zona e i fondali del lago della Duchessa, uno specchio d’acqua al confine tra Abruzzo e Lazio alla ricerca del corpo di Aldo Moro. L’Italia intera si fermò. In attesa. Ma il comunicato non era delle Brigate Rosse bensì di Tony Chichiarelli. “Mi disse che si era trattato di uno scherzo, che aveva scritto un comunicato brigatista falso per far correre la polizia su quel lago. Me lo confessò mentre la tv trasmetteva la notizia… e il lago della Duchessa è vicino a Magliano dei Marsi, il paese natale di Tony. In seguito, capii che si trattava di un lavoro commissionato”. Da chi, lo rivelerà  anni più tardi Steve Pieczenik, all’epoca capo dell’ufficio per la gestione del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato americano e uomo di fiducia di Henry Kissinger, chiamato a far parte del comitato di esperti istituito da Francesco Cossiga per far fronte all’emergenza. Steve Pieczenik, nel 2007, molto tempo dopo il caso Moro, dichiarerà che la sceneggiata era stata organizzata dai servizi segreti su suggerimento dell’unità di crisi capitanata da Cossiga. Di fatto quel falso comunicato servì a distogliere l’attenzione delle forze dell’ordine da Roma e questo consentì ai brigatisti di spostare Moro da una prigione all’altra.
Perché suo marito Antonio Chichiarelli si prestò a questa tragica farsa?
“Si trattò di un lavoro come un altro, commissionato e retribuito. Diverso da quello che era abituato a fare. Peraltro richiesto da gente perbene”.
A sapere tutto del falso comunicato e della scoperta “pilotata” di via Gradoli, era Mino Pecorelli che scrisse del sequestro Moro come di “una delle più grosse operazioni politiche compiute in un paese integrato nel sistema occidentale con l’obiettivo primario di allontanare il Pci dall’area del potere”. Su Op pubblicò in anticipo alcune lettere del leader democristiano. Da chi le aveva ottenute? Nel numero dell’11 aprile scrisse: “Veniamo informati da canali autorevoli che il Vaticano ha effettuato l’inizio concreto delle trattative”. Trattative smentite allora dalle fonti ufficiali e confermate solo nei primi anni ’90. Come lo aveva saputo? Il 18 aprile Pecorelli preannunciò la maledizione di Moro: “Il mio sangue ricada sulle teste di Cossiga e Zaccagnini”. Nel gennaio del 1979 accennò a Gladio e titolò “Vergogna buffoni!”, rivelando su Op quello che sarà scoperto soltanto anni più tardi: la presenza nel comitato d’emergenza dell’esperto americano Steve Pieczenik.
Antonio Chichiarelli le ha mai parlato del giornalista? Le disse di un loro incontro?
“Pecorelli non l’ho mai visto e non so se conoscesse o meno mio marito. Ma Tony rimase molto turbato dall’omicidio, lo apprezzava come giornalista perché denunciava le malefatte dei politici. E comunque a casa nostra non c’è mai stato, ricordo, invece, un uomo strano che venne a trovare Tony, mesi prima dell’omicidio Pecorelli. Era uno che parlava diverse lingue”.
Cosa sa del borsello lasciato sul taxi?
“Vidi mentre confezionava quelle schede… era arrabbiato per la morte del giornalista. Le aveva scritte di notte, non voleva farsi vedere da me. Sapeva che avremmo litigato, che ero contraria a quello che faceva e alle persone che frequentava”.
Il 14 aprile del 1979 due studenti americani trovarono un borsello di cuoio marrone sul sedile posteriore di un taxi. All’interno c’era un Beretta calibro 9 con caricatore vuoto, 11 proiettili calibro 7.65, una testina Ibm contrassegnata dalla sigla Light Italic 12 (stesso carattere usato dai brigatisti nei loro comunicati durante il sequestro Moro e stesso carattere usato da Chichiarelli per il falso comunicato del lago della Duchessa), due cubi flash per macchina fotografica Polaroid (che rimandano alle foto scattate ad Aldo Moro nella cosiddetta “prigione del popolo”), fazzolettini di carta marca Paloma (stessa marca di quelli trovati sul corpo di Aldo Moro), il frammento di un biglietto per il traghetto Villa San Giovanni-Messina e altro materiale, oltre a delle schede in fotocopia, una di queste relativa alla morte di Mino Pecorelli.
Tony potrebbe aver partecipato, in qualche modo, all’omicidio del giornalista?
“Non era un assassino. E non si interessava di politica. Non so perché abbia confezionato il materiale ritrovato in quel borsello. Durante il processo dissero che aveva seguito il giornalista, che era stato visto sotto il suo ufficio. Forse voleva solo parlargli… metterlo in guardia. Escludo che possa aver partecipato all’omicidio”.
Era legato alla banda della Magliana?
“Conosceva Massimo Sparti, uno che faceva documenti falsi. Tony faceva la stessa cosa. So che si rivolgevano a lui per avere patenti e passaporti… e che a Franco Giuseppucci, quello che chiamavano il Nero, regalò dei quadri. Si vedevano in un bar, in casa nostra quelli della Magliana non sono mai entrati”.
Frequentava via dei Volsci?
“Sì, forse aveva degli amici lì”.
Perché lasciare quelle schede?
“Tony non era una persona normale, era un matto. Ma un matto buono. A suo modo  voleva dare delle indicazioni. Con quel borsello sarebbe stato facile arrivare a lui, probabilmente voleva anche questo. Voleva essere interrogato”.
Il borsello fu consegnato ai carabinieri, al generale Antonio Cornacchia, ma il falsario non fu mai individuato e mai convocato. Almeno, non ufficialmente.
La notte fra il 23 e il 24 marzo 1984 con quattro complici Antonio Chichiarelli mise a segno una rapina da 35 miliardi di lire svuotando il deposito della Brink’s Securmark in via Aurelia. Sei mesi dopo, il 28 settembre 1984, fu assassinato mentre stava rientrando a casa insieme alla nuova compagna e al figlio di pochi mesi.
“La rapina alla Brink’s Securmark fu un ringraziamento, una sorta di regalia da parte di chi gli aveva commissionato certe particolari operazioni. È un fatto che dopo trentasette anni si può affermare tranquillamente, anche se non a  livello giudiziario”: cit. pag.10 Resoconto Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro seduta del 19 marzo 2015.
“Quella sera con Tony c’era Cristina – conclude Chiara Zossolo –  I nostri rapporti, nonostante la sua nuova storia, erano buoni. Della rapina appresi quando vidi le mazzette di soldi sul tavolo. Mi disse che era andato per prendere soldi ma che aveva trovato anche documenti. Nei mesi successivi anticipò 4 miliardi e mezzo di lire a tre fratelli proprietari di una fabbrica di cornici. Erano pieni di debiti e Tony si offrì di comprare le azioni dell’azienda, avrebbero ufficializzato l’acquisto da un notaio, da lì a poco, ma Tony fu ucciso. E quei soldi non furono mai più restituiti”.
L’omicidio di suo marito è rimasto irrisolto, come quello di Mino Pecorelli…
“Non so chi uccise Tony così come non so chi bruciò la mia casa. Era domenica, forse Pasqua o le Palme, era un giorno di festa ed ero al ristorante con i miei nipoti, per fortuna. Al mio rientro trovai vigili del fuoco e fumo. Della mia casa non si salvò niente…Tony era già stato ucciso e io avevo già testimoniato al processo di Perugia”.

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