La tragica sceneggiata è senza fine.
A 27 anni esatti dall’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin la giustizia italiana non ha ancora raccolto uno straccio di verità. Nonostante ci sia una montagna di prove, di elementi e di fatti su cui basarsi per arrivare ad un processo che inchiodi alle loro responsabilità non solo i killer ma soprattutto i mandanti, rimasti impunemente per tutti questi anni a piede libero.
Una autentica vergogna di Stato, tanto più perché è infarcita di un ancor più autentico Depistaggio, altrettanto di Stato, come ha certificato tre anni fa la clamorosa sentenza pronunciata dal tribunale di Perugia che ha scagionato dalle accuse inventate di sana pianta il giovane somalo, Omar Hashi Hassan, processato e condannato in ben tra gradi di giudizio, scontando addirittura 16 anni di galera da innocente.
Quella sentenza mostra con palese evidenza tutte le vie del depistaggio, sottolinea i clamorosi errori & orrori compiuti da inquirenti e magistrati, e indica anche in quale direzione indagare, quali piste battere per ricostruire le connection e mandare quindi alla sbarra i responsabili.
Giorni fa, in occasione dei 27 anni appunto dall’eccidio di Mogadiscio, siamo stati costretti a sorbire il solito rituale di Stato, fatto di ormai vuote parole pronunciate dai soliti vertici istituzionali: “occorre trovare la verità”, “bisogna dar giustizia alla memoria di Ilaria e Miran”. Ma cosa hanno fatto e fanno, lorsignori, per denunciare quel vergognoso Depistaggio di Stato? Hanno preferito tacere, in un silenzio omertoso che pesa come un macigno. Vergogna.
ECCO IL DEPISTAGGIO DI STATO
La Voce ha scritto decine di inchieste su quelle tragiche esecuzioni. Focalizzandosi soprattutto sulla incredibile montatura legata alla costruzione del teste fasullo, Ahmed Ali Rage, alias ‘Gelle’, sulla scorta delle cui false accuse è stato condannato l’innocente Hashi. E’ proprio la sentenza di Perugia a ricostruire il copione: Gelle è stato costretto a testimoniare il falso, non ha neanche mai testimoniato al processo, quindi è stato ‘custodito’ a Roma per svariati mesi dalle nostre forze di polizia, addirittura condotto e prelevato al lavoro (una officina meccanica cittadina); infine fatto scappare prima in Germania e poi in Inghilterra. ‘Servizi’ completi!
Né mai è stato cercato, all’estero, una vera primula rossa. E solo la caparbietà e la tenacia dell’inviata di “Chi l’ha visto?”, Chiara Cazzaniga, ha permesso alla giornalista di rintracciare Gelle a Londra, raggiungerlo, intervistarlo: con un Gelle che, finalmente, ha vuotato il sacco, ha raccontato del suo taroccamento, dicendo che quel povero somalo non c’entrava niente. E lui era stato profumatamente pagato per fornire la versione inventata per incastrare Hashi.
Ai confini della realtà.
Ma cosa è successo dopo la illuminante sentenza di Perugia? Sarebbe dovuto accadere il finimondo, un processo da avviare quanto prima. E invece niente, o quasi. Il silenzio più tombale, o quasi.
Il fascicolo processuale di Perugia, infatti, è ovviamente finito a Roma. E i legali della famiglia Alpi, gli avvocati Domenico D’Amati, Giovanni D’Amati e Carlo Palermo hanno sollecitato la riapertura del caso, proprio alla luce della sentenza perugina.
Ebbene, per ben due volte il pm della procura capitolina, Elisabetta Ceniccola, ha chiesto l’archiviazione del caso: a suo parere non esistevano elementi tali da riaprire l’inchiesta. La sua richiesta è stata, per entrambe le volte, avallata e quindi controfirmata dal procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, poi andato in pensione e subito chiamato su un’altra poltrona da novanta, quella di procuratore unico del tribunale vaticano, la carica apicale della giustizia alla Santa Sede.
Per due volte, comunque, il gip del tribunale di Roma incaricato del fascicolo, Andrea Fanelli, non è stato d’accordo, non ha archiviato e ha rispedito al mittente, il pm Ceniccola. Con una precisa richiesta di svolgere ulteriori accertamenti.
L’ultima richiesta rivolta da Fanelli a Ceniccola è del 4 ottobre 2019. A questo punto il pm ha avuto sei mesi a disposizione per effettuare gli accertamenti del caso, per la precisione 11 punti caldi da chiarire, così come espressamente dettagliati dal gip nel suo provvedimento di quell’ottobre.
Ebbene, il termine per le indagini scadeva dopo 180 giorni, quindi a marzo 2020.
E’ trascorso esattamente un anno, e niente è successo. Un silenzio anche stavolta tombale.
Colpa della pandemia che ha rallentato tutto? Per la difficoltà di quegli accertamenti? Per il timore di scoprire qualcosa di troppo grosso, di disturbare qualcuno troppo in alto? O cosa?
Come mai il fascicolo s’è perso tra le nebbie di quello storico porto, ossia la procura di Roma come per decenni è stata etichettata?
Perché il pm non ha sentito alcun obbligo di motivare quel macroscopico ritardo? Anche con una ulteriore richiesta di tempo: e invece niente. Un vero schiaffo alla memoria di Ilaria e Miran, a quella dei genitori della giornalista, morti senza uno straccio di giustizia, a quella dell’avvocato Domenico D’Amati, scomparso proprio a dicembre 2019, una vita in difesa dei giornalisti minacciati ed eroicamente a caccia per anni di killer e mandanti del tragico duplice omicidio.
GLI 11 INTERROGATIVI FINORA SENZA RISPOSTA
Passiamo adesso ad esaminare quegli 11 punti segnalati dal gip Fanelli.
1 – Il gip chiede di sentire Abdi Badre Hayle, “al fine di accertare da chi è partito l’ordine di versare la somma di 40 mila dollari all’avvocato Duale e come faceva a sapere che era per la ‘questione Hashi’”.
Si tratta dell’avvocato Douglas Duale, il legale del giovane Hashi accusato dei delitti e rimasto a marcire per 16 anni in galera da innocente. La Voce intervistò una quindicina d’anni fa Duale nel suo studio romano, a un passo dal Palazzaccio della Cassazione. Il legale ci consegnò anche delle significative foto, relative all’interramento di fusti pieni di rifiuti super tossici lungo la strada Garoe-Bosaso. La strada della morte – proprio per quei carichi letali – percorsa da Ilaria e Miran il giorno prima della loro esecuzione.
2 – Il gip al secondo punto chiede di escutere Mohamed Moalin Hassan “al fine di accertare se, e per quali ragioni, lo stesso abbia assunto un ruolo nell’attività di raccolta e/o trasmissione di denaro destinato alla difesa di Hashi Omar Hassan”. Si tratta in sostanza della stessa questione sollevata al punto numero 1.
3 – Fanelli chiede di “acquisire la lettera riservata dell’AISI del 6 giugno 2018.
4 – Eccoci ad un punto fondamentale. Il gip chiede di “escutere la fonte confidenziale citata nella relazione SISDE del 3 settembre 1997, previa nuova richiesta al Direttore pro tempore dell’AISI, in ordine all’attuale possibilità di rivelarne le generalità”.
Si tratta – stavolta sì – di un teste basilare. Fin dalle prime battute investigative, guidate dal pm Giuseppe Pititto, si è palesata una concreta pista che portava alla Digos di Udine. In una serie di informative, infatti, veniva fatto espresso riferimento ad una ‘fonte confidenziale’ (con ogni probabilità un agente segreto) che sapeva molto sul caso di Ilaria e Miran. Ma in tutti questi anni quel nome è stato ‘secretato’, coperto per motivi non solo di privacy, ma anche ‘istituzionali’. E anche alle ultime richieste, i servizi segreti hanno risposto picche: quel nome non deve uscire, costi quel che costi. Come mai? Cosa si vuole coprire? E pure a tanti anni di distanza, come mai deve permanere quell’ormai assurdo segreto? A quanto si sa, quella fonte misteriosa avrebbe fatto riferimento ad una figura chiave nell’omicidio dei due reporter italiani: si tratta del controverso imprenditore Giancarlo Marocchino, per molto anni impegnato in strani traffici in Somalia: aveva incontrato Ilaria e Miran appena pochi minuti prima dell’eccidio.
5 – Al quinto punto il gip Fanelli si pone e pone il tema clou: “in caso di persistente impossibilità di rivelare l’identità della fonte, escutere il Direttore pro tempore dell’AISI in ordine alle ragioni poste alla base di tale impossibilità”. Più chiari di così!
Siamo di fronte ad un autentico muro di gomma, un gigantesco ostacolo posto dall’AISI sul raggiungimento della verità. Inconcepibile.
6 – Siamo ad un caso nel caso, ossia la super-ritardata trasmissione di un fascicolo d’inchiesta dalla Procura di Firenze a quella di Roma: il ‘plico’ ha impiegato ben 5 anni per approdare da una all’altra, un piccione viaggiatore sarebbe stato certo più rapido e solerte. Quell’inchiesta riguardava un traffico di camion militari che niente aveva a che vedere con quelle portate avanti da Ilaria e Miran. Ma c’è agli atti una conversazione telefonica tra due somali in cui si parlava espressamente del fatto che “Ilaria è stata uccisa dagli italiani”. E su questo punto Fanelli vuol vederci chiaro, e capire il paradossale ritardo nella trasmissione del plico.
Ecco cosa scrive infatti il gip: “escutere il dott. Ettore Squillace Greco, attualmente Procuratore della Repubblica di Livorno, al fine di accertare chi fosse l’assistente cui, in data 21 febbraio 2012, egli consegnava il plico sul quale aveva redatto il provvedimento di trasmissione alla Procura di Roma e al fine di accertare le circostanze della consegna (se egli si fosse raccomandato circa l’importanza e la rapidità della trasmissione, se avesse precisato la natura e la particolarità del caso giudiziario cui si riferiva il fascicolo, ecc.)”.
7 – Il settimo punto è una semplice estensione del sesto. Il gip chiede di “escutere l’assistente così individuato – nonché, in ogni caso, le assistenti Morelli Debora e Santarelli Maria Luigia – sulle ragioni della mancata tempestiva trasmissione degli atti alla Procura di Roma”.
8 – Con l’ottavo punto si torna al tema cardine affrontato al punto 4, ossia la sempre misteriosa ‘fonte confidenziale’. Fanelli chiede al pm Ceniccola di “escutere il dott. Giovanni Battista Scali – funzionario di polizia che ha mantenuto personalmente il contatto con la fonte confidenziale menzionata nell’informativa della Digos del 3 febbraio 1995, e nell’annotazione del 2 febbraio 1995 – al fine di accertare la reale identità del predetto informatore”. Di tutta evidenza, Fanelli torna al tema bollente.
9 – E batte ancora, Fanelli, su quel tasto, chiedendo di “escutere il soggetto eventualmente identificato all’esito delle indagini di cui al punto 8”.
10 – Eccoci ad un altro tassello strategico del mosaico: il ruolo giocato in tutta la vicenda da Giuseppe Cammisa, alias ‘Jupiter’, indicato da un ex appartenente a Gladio come uno dei personaggi chiave nel giallo dell’omicidio di Ilaria e Miran. Cammisa è stato il braccio destro e factotum del più che controverso Francesco Cardella, l’animatore della comunità trapanese di recupero per tossicodipendenti, ‘Saman’. Per questo motivo, del resto, nella precedente richiesta di approfondimenti, Fanelli insisteva per l’acquisizione dei fascicoli riguardanti l’omicidio di Mauro Rostagno, altro animatore di Saman che con ogni probabilità aveva scoperto affari più grandi di lui: e per questo “doveva morire”. A quanto pare, infatti, Rostagno era sulle tracce di un traffico d’armi lungo l’asse Sicilia-Somalia, e avrebbe filmato un gruppo di militari impegnati a caricare armi su un aereo. Forse le inchieste di Ilaria e di Mauro, ad un certo punto, si sono pericolosamente (per i trafficanti) incrociate.
Nella richiesta di approfondimenti del 4 ottobre 2019, Fanelli chiede al pm di “acquisire presso l’AISI, previa eventuale desecretazione, gli atti ostensibili riguardanti la presenza di Giuseppe Cammisa in Somalia nel periodo del duplice omicidio Alpi-Hrovatin e, all’esito della eventuale acquisizione, svolgere gli ulteriori necessari approfondimenti”.
11 – Siamo all’ultimo punto, e il gip torna nuovamente all’avvocato Duale: chiede infatti al pm di “acquisire, previa eventuale declassificazione, le intercettazioni disposte dalla ‘Commissione parlamentare d’inchiesta Alpi-Hrovatin’ a carico dell’avv. Douglas Duale”.
Vorrà mai il destino che il pm Elisabetta Ceniccola si degni di rispondere al gip Fanelli, fornendo tutti i ragguagli richiesti ormai un anno e mezzo fa?
Staremo a vedere.
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